venerdì 30 settembre 2016

PRINCE LESTAT (Ovvero: “Ci può essere una sola Regina.”)



"Il Principe Lestat" uscì ben due anni fa, nell'ottobre del 2014.
Si proponeva come il grande ritorno sul panorama letterario di una saga storica che si era chiusa anni prima: Le Cronache dei Vampiri. Schiere di lettori fra la speranza e la paura. Lo comprai allora, lo lessi, lo richiusi, scavai una fossa bella profonda per le mie piccole speranze e da allora non ne feci più parola.
Ma ora, fresca di rilettura, credo di essere pronta a fare "la Recensione Che Non Serve Più", ovvero a ricollegare tutti i fili e cercare di capire cosa, cosa, COSA a mio personalissimo e parziale parere non ha assolutamente funzionato.

E poi hanno appena pubblicato "Harry Potter e la maledizione dell'erede". Insomma, è bello sapere che può sempre andare peggio!




(Io vi avverto: SPOILER come se piovessero.)


Sono tre stelline su cinque, su aNobii, ma solo perché non posso dare due stelle o meno ad un libro oggettivamente ben scritto. Premetto che adoro Anne Rice, il suo stile, le sue Cronache (delle quali però ritengo essere davvero valida solo la trilogia originale), quindi è molto doloroso recensire negativamente un libro che ho letto comunque sotto l’influenza di tutta l’ammirazione che ho per una scrittrice del suo calibro. Sono i contenuti, qui, ad essere davvero carenti.

In realtà il libro parte piuttosto bene. Non è male vedere come se la cavano i vampiri passati gli anni 2000, ed è veramente interessante pensare come le comunità soprannaturali possano sperimentare una crisi a causa dell’avvento della tecnologia moderna.
Ma. Le note dolenti arrivano prestissimo.
Con la figura di Fareed, il medico vampiro, arriva quello che non bisognerebbe mai fare: il tentativo di spiegare il soprannaturale.
Faccio il paragone con La Regina dei Dannati perché i due libri hanno molto in comune: stessa struttura, stesso svolgimento, ma uno funziona e l’altro no. Nel terzo libro delle Cronache la genesi dei vampiri veniva effettivamente spiegata, ma si rimaneva nel mondo dello spirituale e dell’inconoscibile. Qui invece tutta la magia e l’aura di misticismo si incrina e cigola sotto tentativi di spiegazioni scientifiche basate su cellule e molecole che, anche se possono essere ingegnose, a parer mio rovinano lo spirito del libro. (Con le parole: “Non siamo morti, siamo organismi vivissimi” Fareed rovina l’intero spirito di una saga) I vampiri della Rice rimangono troppo romantici per avventurarsi nel mondo delle prove empiriche.
E poi, nessuno vuole la spiegazione scientifica al vampirismo. Vogliamo i morsi e i banchetti di sangue, grazie.
Gli esami ed esperimenti a cui Lestat si sottopone sfiorano il ridicolo, compreso quello ingegnosamente progettato per fargli provare di nuovo il sesso come umano, ma su quello tornerò più tardi. Infelicissima la frase “Avrei potuto scrivere un saggio di 500 pagine su come mi gettai su quella giovane donna...” E allora descrivi, di grazia, che io per questo malloppo di libro ho pagato.
Inoltre, certe battute a beneficio della “modernità” sono solo imbarazzanti, come Lestat che cita Mel Brooks. Ma, dopo un inizio che tutto sommato ingrana, con la crescente minaccia di un pericolo comune misterioso e incalzante, proprio come era Akasha... tutto comincia a rallentare.

La storia dell’umana Rose intrattiene, come hanno sempre fatto le storie degli umani che per caso o per destino incrociano il cammino dei vampiri. Mi è sembrata quasi una sostituta per Claudia, una nuova figlia adottiva di Lestat. Non mi dispiaceva il suo carattere, ma purtroppo finisce per diventare una delle ragazze indifese, angelicate e prive di spessore che un po’ troppe volte si incontrano all’interno delle Cronache.
Il suo flashback si conclude purtroppo con la rivelazione della Grande Boiata che permea questo libro.
Il figlio di Lestat.


 (E uno pensa: avrà una sua utilità? No, per tutto il libro è inutile e torna buono solo come ostaggio. Ma magari sarà l’unico lascito umano di Lestat, l’unico erede mortale che... No. Vampirizzato entro la fine del libro.)

Mentre ancora ci si asciuga le lacrime, si passa alle storie di un mucchio di personaggi nuovi. Storie piuttosto interessanti ma, come ho detto, sono un mucchio. Troppi nomi, troppe storie che non spiccano, e stavolta (al contrario de La Regina dei Dannati) le situazioni non sono mai abbastanza pregnanti.
Non si sente il pericolo incalzante, non si ha la sensazione che ogni capitolo sia un pezzo di puzzle che va al suo posto. Metà della Regina era occupato dalla storia delle gemelle, ma quella storia era fondamentale per i vampiri riuniti ad ascoltarla, così come per il lettore.
Qui si affoga lentamente fra i nomi e i fatti. La narrazione procede lenta e leziosa. Spiccano i pochi momenti di vera azione e pericolo, ma invece per il resto tutti i nuovi personaggi sono così tranquilli, pacati, educati e pieni di sussiego da dare sui nervi. Sembrano troppo occupati a fare le presentazioni fra loro piuttosto che a fare avanzare la trama in una direzione qualsiasi.
I vampiri della Rice erano sempre eccessivi, nel bene e nel male, ma erano dominati da emozioni fortissime che potevano distruggere o salvare. Armand era uno psicopatico. Il rapporto fra Lestat, Louis e Claudia ha quasi portato tutti e tre alla morte. Quei vampiri si erano fatti a vicenda cose inenarrabili, e alla fine, a distanza di secoli, si sforzavano di andare d’accordo nonostante il baratro rimasto fra di loro.

Qui invece sono tutti sedati. Tutti beneducati e vestiti benissimo, cosa che viene ribadita fino allo sfinimento. (Ho perso il conto di quante volte ho letto le parole lana pettinata e capelli curatissimi: per favore, per una volta vorrei un vampiro buzzurro.)
 La cosa più insopportabile è che sembra che la Rice abbia avuto intenzione di riabilitare e ripulire tutti i suoi vecchi personaggi. C’è un tripudio di secondari che ritornano, ma non fanno altro che un breve cameo: è bello rivedere alcuni (come Eleni o Alessandra), curioso ricevere rivelazioni inaspettate su altri dati per morti (il creatore di Marius), mentre altri... Beh, il fatto rilevante sembra essere ancora una volta che tutti ritornano in splendida forma e aspetto meraviglioso: sembra che adesso non sia più permesso essere brutti o inquietanti.
Perfino Magnus (Magnus. MAGNUS!), il vampiro creatore di Lestat, ritorna come fantasma. E, siccome i fantasmi a quanto pare possono scegliere il loro aspetto, il suo è ovviamente bellissimo e fascinoso. Un educato e splendido gentiluomo di mezza età senza altro scopo se non di fare il proprio cameo.
No, Cristo! Ridateci il vecchio gobbo pazzo! (anzi, lasciate le sue ceneri al vento, dove dovrebbero restare!)
Una volta la narrazione era piena di significato e poesia. Ora la cosa più importante sembra essere ribadire in ogni capitolo di che marca siano i vestiti firmati dei protagonisti.
Poi: so che i libri sono parte integrante del mondo dei vampiri, ma più di una volta nella storia vengono prese in esame le Cronache e sembra sempre che la Rice si stia facendo i complimenti da sola.

Tutto il libro è un lungo percorso per radunare i personaggi in un solo luogo. E ci mettono un’eternità. Senza urgenza, senza coinvolgimento, senza panico, senza pathos: sono tutti così tranquilli e rassegnati che ti chiedi perché dovresti essere tu a preoccuparti. Gli unici pezzi in cui davvero si teme per i nostri beniamini sono durante i colloqui con Jesse e David, quando si viene a sapere della condizione critica delle due gemelle millenarie, Mekare e Maharet.
Poi di colpo accade il peggio con la violentissima morte di Maharet che nessuno voleva vedere finire così.
Comunque, i vampiri hanno davvero troppa fiducia che Lestat possa essere la soluzione. Non hanno mai avuto fiducia in lui, e facevano bene. Lestat è quello che i casini li crea, non li risolve. Funziona l’idea di lui come figura carismatica e famosa attorno a cui la comunità dei vampiri si radunerebbe, ma siamo seri, qualcuno gli affiderebbe potere decisionale su qualcosa? Qualsiasi cosa?



È un eccesso di amore, un’ode a Lestat più sperticata ed ingiustificata che mai. Amavo Lestat per il fatto di non essere un leader. Era fantastico per il suo modo di tirarsi addosso l’amore ma anche l’odio di tutti gli altri: ora tutti lo osannano come la più banale delle Mary Sue. Non c’è più traccia della sua complessità, il suo spirito d’azzardo e il suo essere controverso. Ora, almeno agli occhi di tutti coloro che popolano il libro, non può essere altro che perfetto.

Inoltre, a me dispiace moltissimo come viene trattata Mekare. Questa è solo una mia opinione, ma il mistero che la circondava, il fatto che fosse una creatura muta e selvatica, le aveva sempre dato un’aura di fascino mistico. Lei era l’unica che potesse prendere dentro di sé lo spirito Amel e diventare la sola, degna regina dei dannati.
Invece il libro sostiene la teoria che Mekare sia ridotta a nient’altro che una creatura in stato quasi vegetativo con solo brevi guizzi di intelligenza, e sfata completamente il mito, la declassa, la relega a rumore di fondo.
Ammetto che è una scelta comunque interessante, può piacere o no. Per me non ha fatto altro che aumentare la sensazione che tutti i personaggi, anche i più potenti e mistici, stessero perdendo il loro status in favore di Lestat.

Amel si è risvegliato e sta soffrendo all’interno del corpo privo di raziocinio di Mekare. Viene da chiedersi allora che cosa provasse durante i millenni di immobilità dentro il corpo di Akasha ridotta ad una statua.
Il problema è che l’unica reazione a questa minaccia sono chiacchiere. Anche quando finalmente i vampiri si radunano, non si fa altro che fare un lunghissimo punto della situazione. I bevitori di sangue sono soltanto nomi radunati attorno ad un tavolo, e poco altro. Fra applausi, grida di giubilo e fuochi d’artificio riappare anche Gabrielle, che probabilmente insieme alla nuova vampira Sevraine sarebbe già pronta per conquistare il mondo e lascia intendere un passato di avventure incredibili, ma di tutto questo non verrà parlato.
Mi piace la svolta sanguinosa che prendono gli eventi quando è (FINALMENTE) il momento di affrontare il nemico faccia a faccia, ma tutto quello che riesco a pensare alla fine dell’azione è: così facile? C’era veramente bisogno di 400 pagine? I due vampiri antichi che ricoprono il ruolo degli antagonisti sono talmente riluttanti e si fanno fregare così facilmente da essere imbarazzanti.
Come nella peggiore delle tradizioni, le scene più belle accadono fuori scena. Avrei voluto assistere al momento del risveglio di Mekare invece di sentirla raccontare per telefono. Quello sì che avrebbe allungato almeno un po’ una scena di climax penosamente breve, invece la tensione dura appena mezzo capitolo, per lasciare il posto a...? Ulteriori capitoli di assestamento!
Parentesi: alcune scene finali come quella dell’apparizione di Amel nello specchio o di Mekare che raggiunge Lestat sono veramente belle. Sono le conseguenze a lasciare profondamente perplessi.
Ma andiamo con ordine, sui punti più controversi del libro.

Lestat e Viktor
Viktor, spiace dirlo, ma è inutile. Il suo concepimento è forzato e ridicolo. Ai fini della trama serve come ostaggio, ma per quello, narrativamente parlando, sarebbe bastata Rose. Anzi, lei sarebbe stata una scelta migliore. Lestat non ha un rapporto con Viktor: un personaggio meno emotivo avrebbe anche potuto non provare nulla per lui, un figlio che non ha mai visto e con cui non ha alcun legame se non quello biologico. Ma no, ovviamente Lestat non può che amare con tutto il cuore questo figlio (...clone?) spuntato dal nulla, che alla trama non aggiunge nulla.

Pessime decisioni, volume 1: Viktor e Rose
Ormai è prassi venire trasformati in vampiri senza passare dal via.
Viktor è cresciuto fra soprannaturali, con Rose ci hanno provato a tenerla lontana, ma ci è finita dentro. Inevitabile il parallelo con la storia di Jesse Reeves, se non fosse che Jesse era un personaggio completo, mentre Rose è una macchietta.
Siamo davvero sicuri che l’idea migliore sia trasformare una coppia di ventenni sani che sanno a malapena che cosa stanno chiedendo? L’ipotesi di non farlo, di risparmiarli e lasciare che vivano la vita normale che dicono di non volere viene solo sfiorata e poi accantonata: no, no, molto meglio trasformare questi giovani traumatizzati prima di subito, a neanche ventiquattro ore dal loro incontro con Lestat.
Idea buona quanto quella di trasformare Benji a suo tempo: un dodicenne, e quindi un altro bambino vampiro, quando abbiamo già visto tutti le conseguenze su Claudia. Non importa se questo marmocchio riesce a farsi passare per adulto: resta quello che è. Un dodicenne vampiro.

Pessime decisioni, volume 2: C’è una sola Regina dei dannati, e il suo nome è Lestat
Era l’unico modo in cui potevano andare a finire le cose. Il titolo è già in sé uno spoiler bello grosso. Ma spiegatemi perché tutti dovrebbero acclamarla come una buona idea.
Il momento del passaggio di testimone di Mekare è macabro e molto d’impatto, ma (a parte che non sapremo mai se Mekare agisse di sua volontà o spinta da Amel...) per gli altri vampiri sarebbe il momento di tremare sul serio. Amel ha trovato il suo nuovo ospite e, oh mio Dio, non poteva sceglierne uno più controverso e incontrollabile. Molti dei vampiri potrebbero avere da ridire, schierarsi con Lestat o contro di lui. Insomma, ci sarebbe terreno fertile per un buon calderone di conflitti.
No. Tutti approvano. Il principe è stato scelto, evviva il principe.
Ma certo, perché se c’è un vampiro che non ha mai fatto scelte discutibili, completamente folli, pericolose e autodistruttive quello è Lestat, vero? A parer mio, Lestat è il primo candidato a cadere in preda alla follia con la prospettiva della voce di Amel nella sua mente in eterno! Ma a quanto pare non sarà così, anzi, si rivela invece la soluzione ad ogni male perché in questo modo né lui né Amel saranno mai più soli.
Sarà, ma io avrei davvero paura di un vampiro come Lestat con Amel nella testa. Ma nessuno (o pochi?) dei personaggi sembra condividere il timore.

La conclusione, dopo attimi di tensione troppo brevi, è prolissa e noiosa in modo quasi doloroso. Altri interminabili discorsi. Altri tributi di devozione al nostro perfetto vampiro. Altra politica e salamelecchi.
Una cosa apprezzabile: l’ultimo capitolo dedicato a Louis che in qualche modo chiude il cerchio. Ma non basta a superare la delusione e la sensazione che alcuni vampiri avrebbero dovuto restare nelle loro bare, intatti, nello splendore degli anni ’80.

Tutto il libro non sembra altro che una preparazione per un nuovo ordine, con quei personaggi nuovi schierati ma non ancora utilizzati, forse in attesa del prossimo episodio.
A proposito, abbiamo già il titolo. In origine doveva essere Blood Paradise, ma ora sta per uscire sotto il titolo di Prince Lestat and The Realm of Atlantis.
...
Non ce la faccio.

 (http://sheepskeleton.tumblr.com/)


 E adesso, per ricordare insieme i bei tempi!

lunedì 6 giugno 2016

INNOCENT - di bullismo e Voltaire



[PREAMBOLO]

Ho cambiato idea. Sono ancora qui. Il fatto è che scrivo su questo angolino virtuale dal 2011 e, come si suol dire, questa è casa mia. L’idea di un blog nuovo dedicato solo alle recensioni c’era, ma non mi piace fare le cose a metà. Chi l’ha detto che avrò voglia di scrivere solo recensioni?

Per esempio, questa non la è. Ma credo che sia qualcosa che possa interessarvi.

[FINE PREAMBOLO]



Aurelio Voltaire è un musicista e cantautore cubano di dark cabaret.
Sì, sono una fan. Lo seguo dai tempi di perle come “Death death devil devil evil evil song” e amo moltissimo il suo stile almeno quanto il suo senso dell’umorismo.
Seguo la sua pagina di facebook, e qualche settimana fa sono incappata in questo. Il cantante ha pubblicato un video che comprende non solo un video musicale realizzato in collaborazione con l’associazione RTSI - Rätten till sin identitet -che lotta contro le discriminazioni- ma anche un discorso di introduzione in cui lui stesso racconta la sua esperienza personale con la discriminazione e il bullismo in giovanissima età.
Il video parla sostanzialmente di questo. Trovo che metterci la faccia e raccontare nei dettagli le proprie brutte esperienze passate sia qualcosa di molto potente.
Anche perché non racconta solo della caduta e degli anni difficili, ma anche, e soprattutto, della risalita
Non è male che qualcuno ci ricordi che è possibile risalire.
Il suo discorso non ha i sottotitoli, quindi ho pensato di fare qualcosa di gradito per i non anglofoni, e di tradurlo qui per voi.


“Salve, il mio nome è Aurelio Voltaire e sono il compositore della canzone “Innocent”.
Il mio repertorio musicale è composto da murder ballads, canzoni ridicole su Star Trek e Star Wars, canzoni che parlano di non morti, signore della notte, vampiri, lupi mannari... insomma, un repertorio piuttosto sciocco... Ma c’è un certo numero di canzoni molto più serie. Qualche volta, dopo un concerto, capita che qualcuno venga da me e mi dica che una delle mie canzoni lo ha aiutato a superare un periodo molto cupo della sua vita. E so che di solito si tratta di Feathery Wings, oppure Sacrifice. O Innocent. E molto spesso è proprio Innocent.
Ora... quel che rispondo a queste persone è che non sono sorpreso. So che suona molto arrogante, ma la ragione per cui non mi sorprende è perché queste canzoni le ho scritte per aiutare il me stesso di allora ad affrontare proprio le stesse cose che state affrontando voi. Per questo dico che queste canzoni sono state testate sul campo di battaglia. Perché sono state scritte con il preciso intento di guarire, dopo aver affrontato difficoltà del genere.

Innocent parla di bullismo. Il che, sfortunatamente, è un argomento che conosco molto bene.
La mia famiglia si trasferì in America da Cuba quando ero bambino, e ci stabilimmo nel nord del New Jersey. La mia scuola elementare era frequentata soprattutto da gente di colore e ispanici, così pensai che mi sarei amalgamato perfettamente, essendo cubano. Ma mi sbagliavo. Ero l’unico che avesse la pelle chiara, e questo faceva di me il “bambino bianco”. Venivo bullizzato e preso in giro per il fatto di essere bianco... e quando dico “bullizzato” non intendo in modo leggero: venivo insultato, venivo picchiato molto spesso, e, sì, era abbastanza terribile. Era qualcosa di molto duro da affrontare, prima alle elementari, poi in prima e seconda media... ero ancora così giovane.
Quando stavo ancora frequentando le medie cambiammo casa, e ci spostammo nella suburbia. Mentre ci dirigevamo in macchina verso la nostra nuova cittadina vidi gli alberi e l’erba per la prima volta, e vidi gente bianca camminare per le strade portando i cani a passeggio, e –ed è tutto vero!- mi voltai verso mia sorella ed esclamai: “Andremo a vivere con i bianchi!”
Ero così emozionato! Avremmo finalmente vissuto con la “nostra gente” e questo significava che non sarei più stato bullizzato.
Il primo giorno di scuola fecero l’appello. Chiamarono “Winesteen!” e una mano si alzò, “O’Malley!” e un’altra mano si alzò, quindi chiamarono “Hernandez!” –che è il mio cognome- e io alzai la mano.
Tutta la classe si voltò a guardarmi.
Quindi, uno dei bambini sussurrò: “He’s a Spick!” -che è un termine denigratorio per definire gli ispanici e latinoamericani... - e da quel giorno in poi non fui più il “bambino bianco”. Ora ero il bambino ispanico, e venni bullizzato ogni singolo giorno per essere “quello ispanico”.
Ma, fortunatamente, con un po’ di tempo arrivarono a conoscermi meglio come persona, e... scoprirono che c’erano un mucchio di ragioni migliori per odiarmi.
Vedete, a tutti gli altri ragazzi piacevano gli sport, a me invece no. E questo mi rendeva un frocio, a quanto dicevano loro.
Realizzavo filmati in stop motion nella mia cantina, perché adoravo Ray Harryhausen e volevo essere come lui: credevo che la cosa mi rendesse un regista, ma a quanto pare anche quello mi rendeva un frocio.
E durante la ricreazione, mentre i ragazzi giocavano a palla, io ero quello che si portava in cortile un grosso blocco per gli schizzi e disegnava scene tratte da Star Trek e Star Wars: trovavo che quello mi rendesse un artista, e la cosa mi rendeva davvero felice. Ma la definizione che gli altri trovavano per quel genere di passatempo era, ancora una volta, frocio.
Venivo bullizzato senza sosta, e ancora una volta purtroppo non intendo dire che si limitavano ad insultarmi: intendo dire che c’erano regolarmente gang di ragazzi che mi aspettavano dopo scuola e mi davano la caccia. E io non ero un grande corridore, perciò di solito riuscivano a beccarmi e –senza mezzi termini- a pestarmi.

Sfortunatamente, la mia vita in famiglia non andava molto meglio.
Sono cresciuto in una famiglia cubana con un regime molto severo. Avevo un patrigno convinto che praticamente qualsiasi cosa fosse una minaccia di omosessualità, era terrorizzato dalla possibilità che qualsiasi cosa potesse essere “troppo gay”- come se fosse la cosa peggiore che possa accadere ad una persona... – Perciò condivideva l’opinione comune dei ragazzi della mia scuola: che il mio interesse per le animazioni in stop-motion mi rendesse [accento spagnolo] “un homosexual!” e anche disegnare personaggi da Star Trek e Star Wars mi rendesse “un homosexual!”.
Perciò, anche la vita a casa era piuttosto terrificante. E immaginatevi, non appena scoprii lo stile e la musica goth e new wave, e volli farmi un orecchino e tingermi i capelli, questo agli occhi di tutti dovette fare di me un perfetto esempio di omosessuale spudorato.
Insomma, avevo un sacco di problemi a scuola, e un sacco di problemi a casa.
E, giusto per peggiorare ancora le cose, c’era un uomo, un pervertito amico di famiglia, che cominciò ad interessarsi a me. Quindi, come se non bastasse, subii anche molestie sessuali.
Fu un periodo abbastanza terribile. Un periodo terribile con un sacco di cose orrende da sopportare.

Quando avevo sedici anni, l’amore della mia vita decise di uccidersi. Aveva solo un anno più di me: diciassette anni, e si tolse la vita. Pensai che, probabilmente, in realtà lei non fosse mai stata adatta per questo mondo. Pensai che il mondo fosse pieno di gente crudele, orrenda e terribile.
Quello non era mai stato posto per lei, e non lo era nemmeno per me.
Forse stavo davvero cominciando a pensare di seguire il consiglio di tutte le persone della mia città, quelli che mi dicevano: “Non piaci a nessuno, dovresti ammazzarti.” Cominciai a pensare, in modo molto razionale: “Credo proprio che abbiano ragione. Credo proprio che questo non sia posto per me, credo che dovrei uccidermi.”
E così, decisi che lo avrei fatto. Andai a dormire e decisi che il giorno seguente mi sarei tolto la vita. Mi svegliai... E fu allora che ebbi un’idea. Pensai: “Ho intenzione di farlo sul serio, alla fine, ma... Solo per un giorno, solo per esperimento, farò e dirò esattamente tutto quello che voglio fare e dire. Mi difenderò e non permetterò a me stesso di venire bullizzato un’altra volta.”
Così andai a scuola e ad un tratto venni circondato dai giocatori di football, chiaramente intenzionati a divertirsi un po’ con me. E dissi esattamente ciò che pensavo di tutti loro, per una volta reagii dritto in faccia a loro: perché sapevo che quello stesso giorno sarei morto, e perciò nulla di quel che potevano farmi sarebbe stato peggio.
E fu un vero shock per me quando... semplicemente mi voltarono le spalle e se ne andarono.
Avevo dei problemi con un’insegnante, e quel giorno le dissi esattamente tutto quello che pensavo di lei. Quando tornai a casa discussi con i miei genitori, e dissi tutto quel che pensavo anche di loro.
Quello sì che fu un giorno particolarmente glorioso. Alla sera me ne tornai nella mia piccola stanzetta inquietante nel sottoscala, ed ero sul punto di compiere ciò che mi ero ripromesso di fare, quando pensai: “Wow. Che gran giornata. Ok ok, non mi sto tirando indietro, mi ucciderò sul serio, ma... Solo un altro giorno. Solo un altro giorno come oggi.”

Questo accadde trentadue anni fa.
E la ragione per cui sono vivo, oggi, è che ho vissuto la mia vita in quel modo ogni giorno, per trentadue anni. Sono stato il primo difensore di me stesso, mi sono rifiutato di venire bullizzato ancora, poiché non c’è nulla che un bullo possa farvi che sia peggio di vivere nella paura. Onestamente, preferirei rompermi un braccio piuttosto che vivere nella paura ancora una volta.

Di conseguenza, un giorno me ne andai di casa. Me ne andai a Manhattan, dove mi trovai circondato da gente che la pensava come me. Ero circondato da altre persone che amavano l’arte, la musica, la cultura goth e new wave, e tutte le cose che avevo sempre amato.
Giusto il mio primissimo giorno a Manhattan – letteralmente, dal primo istante in cui i miei stivali a punta con le borchie a forma di teschio toccarono il suolo di Manhattan – tutto cambiò.
C’erano persone che mi fermavano e dicevano: “Hai uno stile fantastico, ti piacerebbe recitare nel mio film? Aspetta un attimo, hai detto che realizzi filmati in stop-motion? Ma è meraviglioso!”
Tutto ciò che mi rendeva un paria sociale, apparentemente meritevole di morte, nel paesino in cui ero cresciuto, mi rendeva una persona affascinante a New York. 
Le persone mi apprezzavano per chi ero veramente, e fu solo allora che realizzai che non c’era niente di sbagliato in me. C’era qualcosa di davvero sbagliato, invece, in tutta quella gente dalle vedute ristrette in quella piccola città.

Ora... Quando ero ragazzino, mi sarebbe stato di grande aiuto ascoltare una canzone come Innocent. Sento che c’è ancora tanto dolore dentro di me quando ripenso a quei tempi, alla mia infanzia e a tutto quel che ho passato, e così ho scritto Innocent innanzitutto per me stesso: per il me stesso più giovane, per così dire.
Così mi auguro che, se qualcuno di voi sta passando qualcuna delle brutte esperienze che ho passato io, questa canzone possa aiutarvi. E, più importante di tutto, spero che seguiate il mio consiglio: rispettate voi stessi, credete in voi stessi, difendete voi stessi, e dichiarate: “Non permetterò che mi maltrattino.”
Se state subendo delle violenze, ditelo ai vostri genitori. Ditelo ad un insegnante. Chiamate la polizia. Fate tutto quello che dovete fare per coinvolgere una figura dotata di autorità, perché il bullismo è qualcosa di assolutamente inaccettabile. Non ve lo meritate. Credetemi.
Grazie per avermi ascoltato, e spero che vi godiate la canzone.”

mercoledì 4 maggio 2016

"Vi comunico che..." mi è passata la voglia.

Prima avevo una gran voglia di esprimermi, e per "prima" intendo un tempo imprecisato nell'arco degli ultimi cinque o sei anni.
Tenevo un blog, mi piaceva scrivere riflessioni o anche solo di momenti di vita quotidiana. Scrivevo recensioni perché avevo delle idee piuttosto radicali riguardo come dovesse essere fatto un buon libro o un buon film. Uno dei motivi per cui ho fatto sempre meno recensioni è che i miei gusti si sono ampliati, forse anche ingentiliti. Insomma, pur analizzando in modo critico ogni libro che leggo -deformazione professionale- sono tornata ad apprezzare il puro e semplice piacere che ne ricavo e non sento più il bisogno di sezionare libri con un bisturi. (O almeno, non pubblicamente...)
Leggere blog di critica era molto divertente, fino a che la critica non si è trasformata nei capricci isterici di blogger mitomani frustrati.
Spesso, non avendo molto altro da dire se non "mi è piaciuto perché mi ha colpita", non mi ci mettevo neanche più.

Il fatto è che adesso c'è fin troppa possibilità di esprimersi: facebook ha rivoluzionato la comunicazione come già l'aveva rivoluzionata ai tempi l'avvento dei forum e delle chat. Il rovescio della medaglia è che ora tutti parlano di tutto. Tutti si esprimono, che lo vogliano o meno, su qualsiasi argomento, e il frastuono mediatico è assordante.
E mentre cresce il numero esorbitante di recensori ed opinionisti, la verità è che se vuoi dire la tua è meglio che tu abbia qualcosa di davvero interessante da dire, e che tu lo faccia in modo professionale o almeno utile.
Visto che il web ormai faceva troppo rumore, mi sono trovata senza più nulla da dire. Non vedevo più il motivo di scrivere o dare opinioni, quando c'erano così tante penne (tastiere?) che lo facevano meglio. Disegnavo vignette, ma poi sono arrivati Zerocalcare e Sarah's Scribbles, e di colpo era come se non ce ne fosse più bisogno.

L'unico modo in cui adesso potrei concepire un blog sarebbe per recensioni e per condivisione di materiale, siti, video e articoli che per un motivo o per l'altro ritengo interessanti. Forse una piattaforma nuova, per ripartire da zero con qualcosa di utile, specializzato. Devo pensarci.
Questo per dire che potrei decidere di concludere qui l'utilità del blog, testimone anche il fatto di non avere scritto più nessun articolo per quasi un anno. O, se ricomincio, ricominciare con qualcosa di completamente nuovo e dedicato specialmente alle recensioni.
Ancora non lo so. Ma ci penserò.